Le Ocarine

quando chi scrive è un'oca

Vacuum

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Il Vacuum system è una tecnologia per cui il vuoto creato è disfatto per mezzo di una valvola e al suo posto passa altra materia: dallo stampaggio di materie plastiche allo smaltimento dei reflui zootecnici. Entra l’aria escono le feci suine, esce l’aria entra la colata plastica. Sostituzione dello spazio per via di un vuoto di pressione che spinge le materie in gioco a spostarsi.

Ma questa è già alta filosofia tecnica e tecnologica. Un modo elementare, quindi sintetico, per spiegare un processo controllato.

Il mio collega è convinto che basti dire vacuum per risolversi la vita professionale, fatta di burocrazia da districare. Si incastra egli sulle parole che ripete senza comprendere, come una formula magica al fine di spiegare concetti che gli sfuggono. Eppure quando provo a informalo sulle pratiche che conosco o sottoporgli dubbi affinché ci sia un minimo di dialettica, arriccia egli il muso e chiude le trattative con la bruta ignoranza machista e di provincia. Nord, profondo nord.

E il vacuum system è la stessa idea che spinge il movimento. Si arriva alla saturazione, si apre la valvola, ci si sfoga e si riempe lo spazio di altro. Talvolta è semplice sostituzione, perché ci sono situazioni che storte nascono e storte rimangono. Inamovibili, anche se in apparente movimento. C’è davvero poco da fare. Puoi cambiare città, lavoro e abitudini, ma non è detto che la tua felicità sia maggiore e minore. E per favore, andatevene se credete che per essere felici, basti pensarlo, perché siete dei coglioni.

A un certo punto ci si sveglia in una stanza, si chiude la porta d’ingresso, ci si siede ad una scrivania e si pensa a come ci si è arrivati. Come si è arrivati a questo stato di cose, di poca serenità, di scelte punite ed impunite. Di quella volta che, esausta, sorpassi e ti trovi la polizia dietro, di quella volta che ti sorpassano e devi esser tu prudente per l’imprudenza altrui, e non c’è l’ombra di una paletta alzata per l’idiota motorizzato di turno.

Il vuoto è anche quello di pensieri che non vanno oltre la sufficienza. Il vuoto è quello di scoprirsi in un ufficio con un tasso di maschilismo latente sempre più alto, dove sei donna e quindi poco affidabile, dove sei l’ultima arrivata e quindi chi ti conosce e come ci si può fidare di te? E poco importa se hai dimostrato la tua disponibilità a lavorare, ad esserci con giornate da tredici ore al dì, e settimane e settimane di stress. Ci sarà sempre il collega a dirti che lui ha vent’anni d’esperienza.  Poco interessa se metti a disposizione quello che sai, perché tu produci carta, mentre gli uomini producono fatti.  Poco importa il tuo titolo accademico, quando l’unico modo per lavorare è quello di mettersi delle cuffie per non sentire le urla costanti di discussione o di dialogo. L’uomo urla per dimostrare la propria presenza e capacità, sbatte, alza, inneggia, insulta.

E mi chiedo come si diventi così, perché l’insicurezza anziché essere motore è freno. Perché si debba arrivare all’imposizione senza passare per la dialettica, perché si abbia sempre avere paura di essere detronizzati e perché l’opinione professionale femminile vale meno di quella maschile.

La provincia è sempre provincia, indipendentemente dalla targa. Se ne respirano tutti i limiti, le pocchezze e le insicurezze, le deformità. Così come la città è sempre città con tutti i limiti opposti, e le veilleità più ampie.

Sono donna, quindi di sostanza insufficiente. Cerco e chiedo un rapporto paritario, che non dipenda dal sesso o dalla formazione. Lo cerco e lo chiedo ovunque sia possibile ciò. E forse il lavoro è il posto meno adatto dove porre certe richieste, perché il lavoro è cosa preziosa ora, perché ci sono i conti da pagare e l’indipendenza da mantere.

Allora passo il sabato mattina, in giro per la città. Mi faccio la doccia, e esco con le scarpe da tennis. Faccio colazione al primo bar e giro per i negozi, acquistando cose più o meno necessarie, perdendomi nell’idea di non pensare, di svagarmi e di alleggerirmi dal troppo pensare. Un po’ come quando ritorno dal lavoro o vado a lavoro, e uso la mia auto come una cassa sonora: alzo il volume e canto, cercando una punto di scarico per la frustrazione di essere ciò che sono o ciò che appaio.

Ed è qui che il maschilismo e la provincia si fondono. O più in generale il dover vivere in società. Perché la gente esprimerà sempre un suo giudizio su quello che vede, e spesso vede una parte e non il tutto. E il giudizio diventa intollerante per la sua parzialità.

Passo da molestatrice di menti labili, a singolare persona, a incostante, a musona, infelice, stronza e molto altro, a seconda del lato di me che si vede o che si crede di vedere. Ed  è questo uno dei molti casi, in cui la somma non fa il totale.

Sempre in quel famoso ufficio di provincia, c’è almeno un’altra donna che fin dal suo arrivo ci ha battezzato tutti. A me è toccato il suo bene. Dopo poco, mi ha detto che si era affezionata a me. Io che sono spinosa come cactus nella sua miglior stagione.

Ebbene, continua l’altra a battezzarci tutti e a darmi sue letture di come va il mondo e l’ufficio, lei che non è più ottimista che me. O meno irrascibile.  O meno preoccupata. O meno sola.

Ma la gente è così, bisognosa di certezze che siano in quelle della parzialità o nel senso che gli riempie i pantaloni.

(G) A B

Autore: Le Ocarine

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